Verso la metà del Settecento, il restauro di due opere di Antonio Allegri fu al centro dell’attenzione del pubblico francese. Più di vent’anni prima, tra 1726 e 1731, era accaduto un fatto increscioso: il Reggente di Francia Louis d’Orléans, mentalmente instabile, durante una crisi a sfondo religioso se la prese con la presunta oscenità della Leda e della Iò (la copia più tardi finita a Berlino) e lacerò entrambe le tele, accanendosi in particolare sui volti. Charles-Antoine Coypel, “primo pittore del Re”, presente alla scena, aveva implorato il principe di risparmiare quanto restava dei due quadri e, promettendo che non ne avrebbe fatto un uso moralmente riprovevole, li sistemò per quanto poteva (la Leda era stata tagliata in tre pezzi) e li fece studiare ai propri allievi.
Nel 1753 la raccolta di Coypel venne messa in vendita dagli eredi, e Louis-François Pasquier, un uomo d’affari di Rouen, acquistò quanto rimaneva della Leda e ne affidò il restauro (il secondo!) a Jacques-François Delyen (1684-1761). C’era chi, come il giornalista Élie-Catherine Fréron, nel lodare pubblicamente la bravura di Delyen, parlava ancora con imbarazzo del gesto violento del duca d’Orléans (Lettres sur quelques ecrits de ce tems, X, Nancy-Paris 1753, pp. 143-144): “Personne n’ignore qu’un grand prince dont la religion consacrera un jour les vertus chrétiennes, sacrifia son goût naturel & cultive à son austère piété. Un des plus beaux tableaux que possedât la France fut mutilé”.
Alla fine, però, la Leda di Correggio era salva, e il risultato finale addirittura sorprendente: “Quale sarebbe la gratitudine, e forse la gelosia, del pittore italiano, se tornasse tra noi, nel vedere la più bella opera uscita dal suo pennello restaurata ed eguagliata dal pittore francese?”. L’articolo di Fréron (18 luglio 1753) si chiudeva sottolineando che studiosi (“sçavans”) e appassionati (“curieux”) stavano recandosi numerosi a contemplare il rinato capolavoro presso Louis-François Pasquier, in “rue de Richelieu, près la rue Villedot”.
Che cosa accadde invece all’altro quadro danneggiato dal duca d’Orléans, il dipinto con Giove e la ninfa Iò? L’opera proveniva dalla collezione di Livio Odescalchi (1658-1713), nipote di Innocenzo XI. L’inventario di questa collezione romana la descrive come copia, ma una volta arrivata in Francia nella raccolta d’Orléans passa per un originale di Correggio.
Il duca d’Orléans aveva dunque distrutto la testa della ninfa Iò. Nel 1753, come abbiamo visto, la raccolta di Coypel venne messa all’asta; il nostro quadro è il primo sul catalogo di vendita, con un titolo a dir poco singolare: La Folie caractérisée par sa marotte, & dans un abandon de sa personne, qui désigne assez la bisarrerie de ses caprices, in altre parole una personificazione della Follia, resa riconoscibile dalla “marotte”, quella sorta di scettro con piccola testa umana spesso presente nell’iconografia dei buffoni e dei folli. Che cosa era successo al nostro quadro?
Per quanto possa sembrare singolare, una spiegazione di questo bizzarro titolo c’è: poche righe dopo, il catalogo ricorda infatti l’episodio del duca d’Orléans, di cui si loda ancora la “piété exemplaire” e, con uno stupefacente equilibrismo, si apprezza la “sagesse” nella decisione di distruggere il volto di Iò. Il cambio di titolo corrispondeva infatti a un cambio di iconografia avvenuto durante il restauro per opera di Coypel con lo scopo di smorzare il quoziente erotico del Giove e Iò: “Son premier soin [di Coypel] fut de rétablir la tête qui n’étoit plus, et de lui chercher une autre tournure et un autre caractère. Il a achevé de faire desparoître cette tête et cette main du dieu qui, quoiqu’enveloppées dans la nuë, ne se faisoient que trop distinguer, il a fait tenir à sa figure une marotte, pour masquer davantage le sujet, et laissant subsister toutes les autres parties du tableau qui sont demeurées pures (…)”.
Come osservò Cecil Gould (1976), Francois Lemoyne riprodusse la copia Odescalchi-d’Orléans prima che venisse lacerata; se guardiamo questa tela (cm 138 x 106.5, Ermitage), riusciamo a capire come mai Coypel sentisse il bisogno di velare ulteriormente il volto e la mano di Giove.

Nel 1755 viene venduta la collezione Pasquier (quella appunto in cui era finita la Leda); nonostante il Giove e Iò non figurasse in questa raccolta, un esemplare del catalogo di vendita ci fornisce informazioni precise sulla sorte del dipinto; l’esemplare (Bibliothèque de l’Institut National d’Histoire de l’Art) contiene infatti preziose annotazioni manoscritte, alcune di un esperto anonimo, altre di Pierre Remy (un conoscitore e mercante d’arte), e trascrizioni di note di Pierre-Jean Mariette (1694-1774). Quella che ci interessa si trova accanto alla descrizione della Leda: evidentemente l’autore della nota ha associato i due quadri di Antonio Allegri danneggiati vent’anni prima, quadri che ora condividevano una stessa sorte, entrati nella collezione di Federico il Grande di Prussia a Berlino (il quadro si perderà poi nella seconda Guerra Mondiale).

Ecco la nota (che riprende a sua volta una notizia di Mariette):
“M. Bouret Fermier G(énér)al avoit fait acheter l’Io à la meme vente de Coypel ou M. Pasquier avoit eu la Léda, et en avoit fait repeindre la tête, qui manquait, par M. Collins (sic). Le R(oi) de Prusse lui a fait demander le tableau et il le lui a cédé pour 12.000 l., en quoi je trouve qu’il a été très bien conseillé (Mariette)”.
Era stato dunque un funzionario statale di alto livello, Étienne-Michel Bouret (1710-1777), ad acquistare il quadro e a decidere un nuovo restauro, affidandolo a François Louis Colins, “chargé de l’entretien des tableaux du Roi” (personaggio che conosciamo grazie a un ritratto di Louis-Michel van Loo).

L’articolo di una rivista uscita poco dopo questo incarico (“L’Année Litteraire”, 1754, IV, pp. 92 e sgg.) sosteneva che per i migliori “connoisseurs” il restauro del Giove e Iò era all’altezza di Correggio; infatti non si trattava solo di raffigurare una bella donna, occorreva dipingere “une belle tête de femme italienne”, come quelle che poteva vedere Antonio. Alla fine dell’articolo vengono poi riportati – ma solo in parte – i versi con cui un certo “chevalier de Saint-Germain-Matinel” celebrava l’impresa di Colins.
Passano due anni e in una lettera inviata da Bruxelles al “Mercure de France” (gennaio 1756, II, pp. 174 e sgg.) si ritorna a parlare del restauro della Iò. In un contesto speciale – il tema è quello del trasporto dei dipinti da un supporto a un altro – adesso si critica con forza il secondo restauro, sostenendo che Colins era solo un ben noto trafficante (“brocanteur très renommé”). Una violenta accusa basata sul fatto che effettivamente Colins aveva un certo peso nel mercato artistico del tempo; anni prima aveva fatto arrabbiare addirittura Voltaire per un acquisto di quadri finito male.
L’anonimo autore dell’articolo fa invece grandi lodi di un certo Dumesnil che aveva restaurato alla perfezione un quadro, a sua volta attribuito a Correggio, appartenente al nobile olandese Willem van Haren (1710-1768): “C’est une Fortune de grandeur naturelle, nue & debout fur un globe, étendant des deux mains une draperie qui voltige au-dessus de sa tête”.
Sul numero di aprile del 1756 del “Mercure de France” (pp. 170-177), François Louis Colins, risponde piccato alle accuse fattegli in gennaio, si impunta comprensibilmente sul termine “brocanteur” e ribadisce con forza le proprie capacità e competenze artistiche. Una breve nota della redazione della rivista prende le difese di Colins e, come riparazione per le offese subite, pubblica integralmente quell’Epitre in versi del “chevalier de Saint-Germain-Matinel” che “L’Année littéraire” del 1754 aveva citato solo in parte. Se Correggio, “grand maître”, viene nominato una sola volta, i versi lodano in compenso l’“art admirable” di Colins:
“Voyez ces Graces séduisantes
Où l’amour se peint et sourit,
Ces attitudes ravissantes
Où brillent la souplesse, et la force et l’esprit,
Ce feu créateur, ce génie
Qui répand partout ses clartés”.
Ma a chi si deve dunque la straordinaria bellezza del dipinto?
“A toi, Colins, au sublime talent
Par qui ta main élégante & fertile
A d’un tronc aveugle & stérile,
Reproduit un objet parlant”.
Insomma, si sostiene addirittura che la ninfa sospira tra le braccia del dio vincitore grazie all’arte di Colins. L’entusiastica descrizione del dipinto prosegue per una cinquantina di versi e la nube che avvolge Giove finisce per oscurare anche il nome di Correggio e la sua originaria idea.
Claudio Franzoni