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“Mastraccio”? Un’altra Vita del Correggio

   È recentissima la pubblicazione a cura di Riccardo Gandolfi delle Vite degli artisti scritte da Gaspare Celio (1571-1640) tra 1614 e 1638 (Le vite degli artisti di Gaspare Celio “Compendio delle Vite di Vasari con alcune altre aggiunte”, Firenze, Olschki 2021), a partire dal manoscritto dell’opera scoperto nella biblioteca dello Stonyhurst College (Manchester).

   Per quanto relativamente breve, vale la pena trascrivere dal saggio di Gandolfi (pp. 160-163) la biografia di Antonio Allegri:

Antonio da Correggio. Andò alcun tempo dipingendo per quelli contorni, dove ancora in Parma se ne son viste alcune a fresco campite sotto di terra verde all’usanza greca, sì come ancora in Roma se ne veggono per le chiese profanate.

Ma Antonio che era nato per far meravigliare gl’artefici nel colorire, che dopo lui dovevano venire al mondo, megliorò tanto che con lode del più bel coloritore ad olio, et a fresco se ne vive nella memoria delle genti. Fece in Parma la tribuna [abside] di San Giovanni, con la coronazione della Mad(onn)a, et infenite figure. Ma buttata a basso per ingrandire la chiesa, si conservò solo la metà del Christo, e della Mad(onn)a, che sono posti nella Rochetta di Parma, con alcune teste di angioletti [i tre frammenti di affresco oggi a Londra, National Gallery]. Né voglio lassare di dire che io stando a dipingere per il duca Ranuccio, la matina mi lavavo il viso avanti esse pitture, fatte invero con molta sicura pratica.

Fece Antonio in essa chiesa doi [due] pitture ad olio collaterali in una cappella alla destra entrando [San Giovanni Evangelista, cappella Del Bono], dove in una è un Christo morto, la Mad(onn)a et la Madalena che lo piange, della quale ne sono infenite copie sparse per Italia. Dipinse in Reggio di Lepido una Natività, pittura di altare ad olio [San Prospero, la Notte], ne pinse in Modena.

Dipinse una Leda, anco un Marsia scorticato da Apollo in un cembalo, che ne fu fatto poi un bel quadro [è probabile che qui Celio dipenda dall’incisione di Giulio Sanuto (vedi fig. sotto) che riferiva a Correggio un soggetto oggi assegnato a Bronzino]. Dipinse alcuni quadri che poi li hebbero sig(no)ri grandi, dopo la sua morte. Poi che in vita lo chiamavano il mastraccio da Parma, facendoli ostacolo la fama delli Dossi [Dosso Dossi e il fratello Battista], che con aplauso, vivevano nella corte di Ferrara.

Dipinse nella chiesa delli canonici secolari in Parma una tavola, ove fece la Madona che va in Egitto [Madonna della Scodella], fu delle opere ultime. Ma l’ultima fu la cuppola del domo, la quale scuperta, Francesco Mazoli [Parmigianino] disse che gli pareva un guazzetto di rane, cagione di alcuni angioli che attraversati dalle nuvole, si veggono le gambe che con dificultà si scorge dove si congiunghino. Di dove mossi quelli che dovevano pagar l’opera, medianti li partegiani di Francesco Mazoli, gli diedero in pagamento solo sessanta scudi in tanti sisimi, che ne valeva sei mila, per maggior dispreggio, et il povero vertuoso, et vechio, se li volse portare sopra le spalle da Parma a Correggio sua patria, e dove haveva la famiglia.

Dal qual peso, et dal caldo, che era di state [estate], si pose nel letto subbito arrivato, et si morì di età di sessanta nove anni. Restò un figliolo, oltre le femine, il quale attese alle lettere, et fu mandato dal padre a Roma a studiare dalle cose antiche, con intenzione di farlo pittore. Il quale mandò molte teste formate sopra le statue antiche al padre, che poi se ne servì nelle opere come si vede. 

Ma tornato il figliolo al paese dipinse cose di poco valore, se bene mostrò nell’operare di essersi affetionato alli muscoli. Haveva oppenione di sapere più del padre, et soleva dire: “Ne meno mio padre hebbe credito vivendo, sì come si vede nella tavola in S. Antonio delli Balducchini, dove è la Mad(onn)a SS. M(ari)a Madalena e Geronimo [Madonna di san Girolamo], della quale ne hebbe solo per pagamento trenta otto scudi moneta, cioè un carro di vino, uno di fascine, un porco, et il resto in denari, et hora se ne trova doi mila scudi”.

Onde soleva questo figliolo, che letterato era, donare una delle sue pitture, e dire “tenetene conto, che come sarò morto la venderete quello che vorrete. Che quando morse mio padre, a gara mi cavavano di mano le pitture, et li disegni, che mentre viveva non li guardavano; et io ho più disegno che non haveva mio padre”. Et tali parole le soleva dire in una libreria nella piazza di Parma ogni giorno. Che a me furno riferite da chi gl’haveva sentite dire.

Il tutto sia detto per mostrare la fortuna del eccell(entissi)mo Antonio, e la disgrazia del figliolo verso il padre. Poi che Antonio fu tanto umile quanto poco fortunato in vita. Ma dopo con la meritata lode ne fu ricompensato, et se bene il Vasari pare che sia breve nel trattare di esso Antonio, tutta la mia lode conferma il vero.

    Anche se Gaspare Celio accoglie diversi aspetti della biografia vasariana – che pure critica (“se bene il Vasari pare che sia breve nel trattare di esso Antonio”) – gli elementi di interesse e le novità non mancano. Se si tiene conto che egli si fermò a Parma tra la fine del 1602 e il principio del 1604, si è portati a pensare che le notizie del biografo siano del tutto affidabili; ma non è così e – anzi – certe imprecisioni sono marcate, a cominciare dall’età del pittore al momento della morte (quest’ultima descritta ancora secondo il racconto vasariano).

    C’è una serie di particolari coloriti e avvincenti – prima di tutto quel soprannome di “mastraccio” (un hapax?) che sarebbe stato affibbiato al Correggio – ma quale credibilità hanno? Per non parlare della rivalità di Correggio con i fratelli Giovanni e Battista Dossi e dell’ostilità di Parmigianino, notizie prive di altri riscontri. Viene messa in bocca proprio a Parmigianino la celebre accusa del “guazzetto di rane”, che dal Settecento in poi (il primo a riprenderla è forse Clemente Ruta nel 1739) viene attribuita a uno dei fabbricieri del duomo insoddisfatto dell’Assunzione della Vergine; un’accusa che nella letteratura su Antonio Allegri viene considerata un dato di fatto, ma più probabilmente è solo una voce nata dopo la morte del pittore, eco di dissapori tra lui e i committenti.

    Per quanto riguarda le opere, ci si poteva aspettare di più: rispetto alle indicazioni di Vasari ci sono alcune precisazioni, ma anche talune assenze. L’unica vera novità è l’attribuzione a Correggio di un Marsia scorticato da Apollo, attribuzione molto probabilmente originata da un’incisione di Giulio Sanuto (1562) e oggi non più accolta.

    La parte più singolare di questa nuova biografia è senza dubbio quella riguardante Pomponio, del quale si sottolineano gli studi (“…attese alle lettere”, “… che letterato era”). Che il figlio di Antonio sia andato a Roma per procurare modelli antichi per il padre, però, è a dir poco improbabile (Pomponio era nato nel 1522), ma la dichiarazione di Celio rivela che ancora agli inizi del Seicento la questione del viaggio a Roma di Correggio era tutt’altro che chiusa.

    Celio mette poi in bocca a Pomponio la notizia del pagamento della Madonna di san Girolamo con “trenta otto scudi moneta, cioè un carro di vino, uno di fascine, un porco, et il resto in denari”, informazione che coincide (ma non del tutto) con la notizia di “due carri di fascine, di alcune staja di frumento e segnatamente di un animale suino” che Luigi Pungileoni (II, 1818, p. 209) ricavò da una “memoria” dell’archivio del monastero di Sant’Antonio. Anche in questo caso viene da chiedersi quali siano le fonti di Celio.

    E come giudicare la scena di un Pomponio malmostoso che tutti i giorni va in piazza a Parma a sottolineare il crescente valore economico delle opere del padre e a puntualizzare la propria superiorità nel disegno rispetto a lui (“io ho più disegno…”)? Alla fine, il giudizio di Celio su Pomponio è tutt’altro che benevolo: senza troppa esitazione sostiene che egli “dipinse cose di poco valore”, e soprattutto contrappone il successo postumo del padre (“la fortuna”) e la carriera non altrettanto brillante del figlio, accompagnata per di più dall’ingratitudine nei suoi confronti (“la disgrazia … verso il padre”).

Claudio Franzoni